“MESSAGGI IN BOTTIGLIA”

caricamenti di Nanosecondo“Cosa mi pesa del fatto che nessuno legga ciò che scrivo? Mi-scrivo per distrarmi dal vivere, e mi-pubblico perché il gioco ha la seguente regola. Se domani si perdessero tutti i miei scritti, ne avrei pena certo, ma, credo bene, non una pena violenta e folle, come sarebbe da supporre, visto che così svanirebbe tutta la mia vita. Ma in fondo non è che come è per una madre che ha perso il figlio, la quale mesi dopo non solo vive ancora ma è anche ancora la stessa” (Pessoa)

Chiedete qual è il mezzo giusto? Per me la bottiglia!

Con essa ogni destinazione è sconosciuta, il mistero, l’incanto che attraversa il mare, la speranza al ritrovarsi.

Ma è proprio attraverso questo mezzo che si può “divenire” nella nostra natura, nel nuovo luogo, spiaggia o comunità che intendiamo costruire.

Certo qualcuno si chiede ma qual è questo luogo “sacro” dove non mi rompono più i ..”blip”?

Non esiste un luogo semmai è quell’isola che non c’è. Quell’isola dove sono naufragati tanti esseri imperfetti; quell’isola sulla quale quasi invariabilmente finiscono coloro che, per ventura o forse per sventura, nascono con il bisogno-pallino di “scrivere”, senza neppure chiedersi se sarò letto, come tutti i messaggi in bottiglia.

Diciamocelo chiaramente, è un’ossessione! E, cioè qualcosa di non lontano da una vera malattia. Una malattia utile, perché serve a sopportare il terribile male di vivere, ognuno più solo, naufrago su quest’isola che non c’è!

Certo chi come me è affetto da tale malattia diviene esposto ai diversi colpi di un destino che lo attende in agguato con una certezza quasi matematica. È l’agguato teso ad ogni “appassionato scrittore”, anche da un’editoria che proprio su questo punta per la sua sopravvivenza ed in tempi difficilissimi per tutto ciò che è carta stampata, prova a far comprare i libri a chi li ha scritti.

C’è un amico che mi scrive, anche lui lunghissime email che a volte non riesco neppure a leggere tanto che sono lunghe, eppure ogni volta , avendo coscienza che lui ha bisogno di scrivere i suoi messaggi, come in una bottiglia di naufrago…..gli dico che me li sono letti anche se non ho capito e cosi lui è contento perché me li rispiega ……ed ultimamente mi ha spiegato di come “…la formula sia semplicissima, cioè ai limiti del banale : Visto che i libri non si vendono ai lettori, perché non venderli agli scrittori?”

Da qui per lui un penosissimo percorso che dall’esaltazione iniziale discenderà poi solo il desolante declivio dell’esperienza del “di-delusione-in-delusione” quando riceve un email di risposta nella quale ci si lamenta che i suoi messaggi di naufrago sono troppo lunghi. Lui risponde spesso “…. e voi lascateli alla corrente delle maree!”.

Per questo tipo di messaggi non c’è alcun bisogno di completare qualche lista in modo che sia esauriente a chi vuole leggere e chi no! Il senso non sono più le regole ed il bon ton , per questo sarebbe già sufficientemente la gentilezza!

Ebbene, chi non scrive mettendo in campo tutto questo, e sa bene di non poterlo nè saperlo fare, prima di sentirsi costretto a rinunciare, si dovrà perdere in un limbo di disperati, di affondi, di regole del bon-ton da internet, come se il mare e le maree pur avendo un loro ordine e leggi naturali, non si affidassero al caso dei flutti, agli arenili agli scogli ai rami che galleggiano insieme a tutte queste bottiglie.

Certo allora “lui” , ascolterà consigli vari, da parte di quelli che “sono-già-arrivati”. Io suggerirei di fare dei corsi di bon-ton telematici e/o puntare semmai su corsi o studi delle maree, o meglio ancora, provvedendo a trasferire tutti i naufraghi in una riserva protetta (forum) dove la smettono di scocciare all’mail-list; o blog o quant’altre caste diavolerie…. Certo il rischio è che dopo nessuno si potrà accorgere che siamo già tutti morti.

Per qualcuno il problema potrebbe semmai essere di decidere se moriamo uno alla volta, o tutti quanto assieme? Se nel trasferimento facciamo capovolgere la zattera!

Io provo nel frattempo a battere la spiaggia per costruire così la strada, il marciapiede dei rapporti personali, qui su quest’isola che non c’è! Rassegnato a non mollare tanto-scrivo-per-me, e continuare ad inviare messaggi di naufrago in questa bottiglia.

Mi si chiede di rispondere se pubblicare in questo o quel luogo!…., e così via. Ma! Noterete con il tempo anche voi, con disperazione, che nessuno di tali consigli si attaglia al suo caso, né è tanto meno in grado di risolverlo. Anch’io naturalmente sono affondato in questo melmoso limbo e vi ho annaspato in pieno. E fino al punto, quasi, di decidere di smettere, avendo perso la speranza di salvarmi.

La mia soluzione qual’è stata? Trasformare l’attività messaggistica in “scritturiate email” , qualcosa che non poggiasse più sullo studio scientifico, ma sullo studio di senso, ed in un particolare ad uno studio non più istituzionalmente riconosciuto. Per questo sto con altri amici provando ad realizzare ed istituire una “SQUOLA DI CLOWN’s” , senza più “dottorati”, ma solo “ricercatori”!

E dopo aver attraversato anche qui, si anche con voi esperienze disperanti, una volta giunto ai primi esami provare ancora con il vostro aiuto a superarli brillantemente, perché ognuno di voi è maestro!

Chi scrive con l’ossessione del naufrago non guarda tanto per il sottile. Certo l’importante è che il flusso possa scorrere e che non si ingolfi. Ma il “mio mare” è immenso, le correnti fluenti come il flusso del vento sotto le ali dei gabbiani. La stessa paura o preoccupazione di “ingolfamento” di “affogare” nel mare di email è essa stessa disperazione per chi proprio non può fare a meno di continuare a leggere, ma che per questo non ha tempo, perché troppo impegnato per sopravvivere.

Basta decidiamo dove sarà dunque questo qualunque luogo, quest’isola che non c’è , qust’ultima spiaggia per tutti i nostri “messaggi in bottiglia”, di scritti che possano accogliere tutta la nostra disperazione, per diffonderla. La nostra è un’azione provocatoria, alla condivisione disperante di una condizione.

Cio anche per non far piaceri a nessun truffaldino editore “a pagamento”; certo semmai per il solo piacere di stamparli, senza andare sul lastrico per le spese.

Io resto qui! Sto ancora su quest’isola che non c’è … dove finisce sempre l’”appassionato naufrago scrittore di messaggi in bottiglia”, anche se a volte ormai anch’io provo ad abbandonarla.

Già le confortanti sagome delle navi di salvataggio si profilano infatti all’orizzonte. Ecco infatti che iniziano a piovere e fioccare scie di razzi luminosi e da tutte le parti festanti passeggeri in crociera mi invitano a buttarmi in mare, per raggiungerli.

Per questo invio ancora e ancora questo messaggio urgente (in bottiglia) a tutti i naufraghi che condividono con me il comune destino.

Io è un altro (l’altro) “Je est un autre”

Vincenzo Maddaloni……. per una pedagogia del “mio” clown eutopico.

“Je est un autre”… è una formula che ricorre in diversi scritti di Arthur Rimbaud, una poetica che ha segnato in maniera decisiva lo sviluppo successivo della letteratura francese e non solo.

In questi anni si sono succedute diverse letture e  riflessioni sul significato “ermeneutico” di questa frase di Rimbaud. Molti ed eccellenti ingegni, prima di me e per altri e diversi motivi,  si sono esercitati sui testi poetici di Arthur Rimbaud (il poeta maledetto) e su questa formula in particolare. Per esempio, una delle più famose e rilevanti riprese della formula “Io è un altro” è quella di Jacques Lacan: lo psicanalista francese che l’ha valorizzata nella sua personale rielaborazione dell’inconscio.

Per quel che mi riguarda proverò a penetrare la formula “Je est un autre” attraverso lo sguardo e gli occhi del “mio” clown eutopico.

Qui  occorre risalire al contesto in cui questa frase viene espressa da Rimbaud e che si pose in contrapposizione alla concezione artistica corrente nell’ambiente letterario della sua epoca (1871). Le sue parole hanno il tono della sfida e del desiderio di cambiamento. Qual è l’avversario a cui Rimbaud getta il guanto? Ce lo dice lui esplicitamente: «la poesia soggettiva» ricercata da Izambard (A. Rimbaud, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1975, ristampa 2006, p. 449), la poesia dei Parnassiani e del secondo romanticismo, per la quale il poeta di Charleville passa da una iniziale ammirazione, al distacco pressoché completo, che alla fine lo conduce fino alla satira ed al disprezzo (con importanti eccezioni, tra le altre, ad esempio, Verlaine).

Emerge da questo esempio con tutta evidenza che il nemico a cui Rimbaud si rivolge alla poetica parnassiana, tutta incentrata sul soggetto e sull’esaltazione del rigore formale del verso; poetica che si fonda sulla celebre teoria de “l’arte per l’arte” per cui “…l’artista nella creazione deve avere come unico scopo la bellezza e rifuggire l’impegno sociale o sognatore di pratico (come, costruttore di comunità: cum-munis) nel caso nostro come clown e sognatore pratico di come posso vivere la mia esperienza. Rimbaud è stato un fervido sostenitore delle rivendicazioni sociali e democratiche espresse ed attuate dal rivolgimento popolare e dal governo della primavera del 1871..” cosi come riprendeDaniele Baron in una sua ricerca filosofica)  … “..in quei giorni convulsi, Rimbaud sente il bisogno di una poesia nuova o «poesia oggettiva», adeguata ai tempi che verranno – «questo avvenire (…) sarà materialista»– che si richiami alla poesia greca che ritmava l’azione o che sia addirittura “in avanti” (en avant) rispetto all’azione. A questo scopo il poeta si farà Veggente «mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi» e così, come il mio clown, attraversando ogni forma di sofferenza, di amore e follia può raggiungere l’ignoto, io, altro da me e così dare voce alle visioni raggiunte con questo balzo, il poeta dovrà trovare una lingua nuova che «sarà anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e tira. Sarebbe compito del poeta definire la quantità d’ignoto che si ridesta nell’anima universale del suo tempo».

Il clown abbiamo sempre detto che è “poesia fatta persona” ed è in questa ottica che la mia ricerca ed il mio intento viene acclarandosi della nozione che è al centro di questa mia riflessione e del nostro interesse su: “Io è un altro”.

Rimbaud la usa allo scopo preciso di uscire dal soggettivismo, dall’idealismo, dal formalismo, nello sforzo, attraverso lo sregolarsi dei sensi, attraverso il confondersi delle normali distinzioni di senso tra parole, colori e suoni, di parlare una lingua nuova che sia adeguata ai tempi mutati. E’ significativo che Rimbaud dica Je est e non Je suis, cioè “Io è” in terza persona.  

In questo senso passo e supero, per certi versi, attraverso l’esercizio dell’IO SONO, che già altre volte ho provato a spiegarne il senso, perché in questo caso l’Io diventi un corpo estraneo alla coscienza (sono), e quindi non più essere a fondamento del “mio” pensiero, né poter avere uno statuto privilegiato. In questo senso l’aspetto “neutro della pagina bianca” dell’Io che non si pensa più come “sono”, ma di un IO che E’ PENSATO, ed assiste allo schiudersi del pensiero come uno spettatore esterno, come un altro da sé (in questo senso “cerco di spiegare il “se” senza accento di cui tanto parlo a volte)! E’ proprio per questo motivo che resta importante anche da un punto di vista filosofico, la stessa “svalutazione” dell’Io come soggetto del pensiero.

Rimbaud, nella lettera a Georges Izambard scrive: «E’ falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato. – Scusi il gioco di parole. IO è un altro. Tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino, e Sprezzo agli incoscienti, che cavillano su ciò che ignorano completamente!» (da la ricerca di Daniele Baron).

Insomma come Rimbaud diceva: se una tromba si risveglia, trombante; se una caramella si risveglia, patata; se uno squassa si risveglia scassa;  un mecalo virus si risveglia perla, non è affatto colpa sua ed anche per me è evidente che assistiamo allo schiudersi di quello che è un altro che si osserva, si ascolta, che lancia una nota diversa, per creare una diversa sintonia, o per provocare un sommovimento di profondità fino ad arrivare ad un balzo di “scena” da far scappare via tutti gli spettatori dal porcile dove si sono ritrovati.

E se i vecchi imbecilli non avessero trovato, del “me stesso” nell’altro, almeno semmai, soltanto, per un significato falso, non avremmo da spazzar via milioni di scheletri che ogni giorno escono dall’armadio, per ricordarci che, da tempo infinito, abbiamo allevato un’orda di porci intelligenti che oggi si proclamano  autori di quel “me stesso”, che è altro da me e che sono io stesso e nel quale non posso che rispecchiarmi!

Lo stesso Ulisse vide tutti i suoi amici porci e ciò gli servi per comprendere se stesso e tornare a casa.

Ora però possiamo anche affermare con cognizioni di causa-effetto-causa che attraverso le parole di ognuno, come l’Io di ognuno è Io è un’altro e come sia del tutto impotente di fronte al pensiero che ci siamo fatti ognuno di noi del proprio IO.

Il nostro viaggio clown è partito dalla ricerca di un IO SONO come flusso che esce spontaneo dalle profondità: i pensieri stessi nel recitare questo testo impegnativo erano improvvise emergenze di un fiume carsico che scorreva senza essere visto.  Qui occorre abbandonare le stratificazioni di significato che ci porterebbe a parlare di “Io è un’Altro” in termini di persona, non perché ciò non sia possibile e lecito, ma perché l’interpretazione sarebbe secondaria. Bisogna infatti intendere queste due espressioni come concetti collegati alla medesima “coscienza” che in ogni caso non ci appartiene, la stessa coscienza che nel pensare è sia in sé, cioè identica a sé stessa, sia altro da sè, cioè identica all’altro, e per questo che il “sé” (affermazione) per me diventa “se” (senza nessun accento), congiunzione! Ogni affermazione dell’altro è uno specchio di me, nel senso di essere perla e porco allo stesso tempo, altrimenti non potrei essere ne l’uno ne l’altro.

Insomma se l’IO SONO è soggetto, nella trasmutazione pedagogica del mio “clown eutopico” esso diventa “oggetto” rispetto al pensato di me e dell’altro. Insomma quella forma vuota a cui vengono associati i pensieri, che nascono indipendentemente da lui perché io sono anche l’altro e “l’IO è l’altro”.

Insomma c’è un livello di consapevolezza, quello che ci fa dire: l’Io è un/l’altro, che permette di smascherare l’alienazione dell’Io, permette di indicare gli incoscienti, i “dormienti” (potremmo anche dire) che «cavillano su ciò che ignorano», quelli che pensano che l’Io sia a fondamento del sapere.

Sartre con una invenzione grafica efficace ne L’être et le néant scrive che lo stesso “cogito” (coscienza) lo può essere quando si trasforma da soggetto in un oggetto nel mondo. Insomma quando “cogito” diventa una porta, una penna, un tavolo, è realmente coscienza (di) “sé”, quando come persona riesce a stare in un  posto e prende la stessa forma del posto!

Come altre volte ho scritto, preciso ancora che quando metto tra parentesi il mio “sé” (con l’accento) sta a significare che il “cogito” non pone ancora sé stesso come oggetto-luogo, ma che è consapevole di “se” (senza accento) solo nel momento in cui è cosciente di qualche cosa (nella sostanza diventa un “oggetto”, nel mondo) senza porsi più il problema di “esistere”, insomma provare a perdersi per ritrovarsi. Il non trovare il proprio luogo realizza il vuoto che ci farà contattare gli altri (coscienza del “se”) e quindi a quel punto passeremo dal IO SONO all “IO E’ L’ALTRO” (e quindi nel CUM–MUNIS).

La nostra coscienza attuale è senza IO SONO (cogito, ergo sum): non ne ha alcun bisogno. Infatti, per porsi in quanto tale, vale a dire come coscienza del mondo e come coscienza (di) “sé” c’è bisogno di essere “se” congiunzione ed in questo caso L’Io è un/l’altro si costituisce!

L’Ego pertanto è trascendente la coscienza e per questo motivo si può attuare l’epoché, la sospensione del giudizio, nei confronti di tutti, così come Husserl la attua per gli altri oggetti del mondo. Ad esempio non c’è giudizio per un albero che spinto da un forte vento ci viene addosso, cosi come non c’è giudizio se una barca trascinata dalla corrente ci spinge sottoacqua con la sua chiglia col rischio di farci affogare.

In questo senso poeticamente parlando il “mio” clown eutopico rappresenta una coscienza trascendentale. Egli è una spontaneità impersonale che si determina all’esistenza di ogni istante (nel qui ed ora) ed in questo senso neutro, pagina bianca, senza che si possa concepire “niente prima di esso”.  Ogni istante di vita del “mio” clown eutopico rappresenta una vita in-cosciente che ci rivela quindi una creazione dal nulla, da zero, e ci connette al tutto in coscienza, avendo coscienza che la coscienza non ci appartiene ma ci possiamo solo accedere: “Io è un/l’altro”

In questo senso ogni contesto dove si svolge la mia azione potrà provare che la spontaneità delle “coscienze” non potrebbe emanarsi da un Io assoluto “soggetto del “sé”, ma solo sa “verso” l’Io è un altro. In questo caso lo raggiunge, lo lascia intravedere sotto il suo limpido spessore, ma si dà in primo luogo come spontaneità individuata e impersonale, come una pagina bianca dove scrivere il proprio futuro, insomma un autopoiesi.

“Questa coscienza assoluta, quando è purificata dall’Io, non ha più niente di un soggetto, non è nemmeno una collezione di rappresentazioni (teatrali, proprio nel senso che il nostro clown non fa spettacoli, anche se li può fare. Non fa rappresentazioni ma si presenta!)…”….. egli (il clown) è (semplicemente) una condizione prima, una sorgente assoluta di esistenza e quindi di relazione tra “l’io è un/l’altro”.

In questo senso non occorre altro per “fondare” e “condividere principi“, ne una morale, ne una polis assolutamente positiva.

Il problema è l’intenzionalità, è il prendersi cura, è il fare, è l’innamorarsi ogni giorno, è l’incanto, è l’incantarsi, in tutto quello che si è, che ci circonda e/o si può essere, dove ognuno non è più maestro di asilitudine, ma è con l’altro in comunione e gratitudine.

Per la nozione di intenzionalità ogni coscienza è sempre “coscienza di” qualche cosa e, pertanto, mondo e coscienza sono dati nello stesso momento. La coscienza, inoltre, non è più nulla in sé; il “soggetto-oggetto” non è più contenuto nella coscienza in alcun modo (neanche a titolo di rappresentazione), le cose sono fuori dalla coscienza ed essa diventa un assoluto non sostanziale.

Insomma è “esplodere verso” (s’éclater vers,.. come diceva Sartre), una trascendenza che ci getta «sulla strada maestra, in mezzo alle minacce, sotto una luce accecante.

Esistere, dice Heidegger, è essere-nel-mondo. Questo “essere-nel-mondo” va inteso in senso dinamico. Essere è esplodere nel mondo, è partire da un nulla di mondo e di coscienza per esplodere-come-coscienza-nel-mondo d’improvviso (…).

Husserl chiama “intenzionalità” …”…questa necessità della coscienza di esistere come coscienza d’altro da séI possenti spigoli del mondo venivano corrosi da queste diligenti diastasi: assimilazione, unificazione, identificazione. Invano i più rudi tra noi, i più semplici, cercavano qualcosa di solido, qualcosa che non fosse lo spirito; dappertutto non incontravano che una nebbia soffice e raffinata: se stessi”. Insomma l’intenzionalità del “mio Clown eutopico” è ciò che potrà permettere a chiunque “…di ridare alla nostra parte di mondo il suo peso e la sua concretezza. Eccoci….” (A. Rimbaud)…aggiungo solo: con il “mio” clown…e le sue “follie”! Per questo per me la palestra di strada del mio clown è uno dei momenti più significativi della formazione “mio” clown eutopico.

Insomma lo stesso Rimbaud avverte come me alla fine l’urgenza dell’impegno concreto e parla della poesia in rapporto all’azione, non ad una ipotetica scelta, ma ad una vera è propria intenzione.

Ecco, anch’io vi parlo qui di un Clown “poesia fatta persona” in rapporto alle sue intenzioni/azioni, al di la di ogni moralismo ed idealismo di sorta. Parlo di un clown che sia prima di tutto intenzione/azione e che “sia già mondo”, vale a dire che sia già presso le cose e le persone nel mondo, prima di essere in “sé” (con l’accento). Il clown in questo caso diventa un oggetto e non più un soggetto. Il clown come uno straniero rispetto ai territori in cui abitano i pensieri ed al soggetto (io sono) viene sostituito un che di impersonale, un flusso, una creazione dal nulla.

La formula “Io è un/l’altro” è prima di tutto la spiegazione di questo fatto: il soggetto è altro da sé ed è alienato quando cerca di porsi come in-sé e il fondamento va cercato in qualcosa di posto prima, non in senso temporale, ma logico per passare cosi da un “cogito” pre-riflessivo, direttamente all’ignoto, come al vuoto, come la pagina bianca o la neutralità.

Una consapevole apertura all’ignoto (il fare vuoto, fare pagina bianca, il neutro) e solo in questa consapevolezza che vi è un elemento essenziale: il passaggio dall’individuo, inteso come soggetto chiuso narcisisticamente in sé (l’Io), all’impersonale flusso caotico dei pensieri del clown-veggente-poeta, uomo-intero, nudo, uomo delle origini e della precivilizzazione, oggetto lui stesso della possibile trasformazione.

Ciò ha come conseguenza benefica di portare alla luce zone d’ignoto. Questa azione di svelamento dell’ignoto, dunque, non può che avvenire sulla base di una coscienza di sé (affatto differente dall’Io).

In questo senso lo stesso linguaggio, la parola del clown se pronunciata gli impedisce di dire e rappresentare in modo univoco e preciso il “luogo” che precede la correlazione soggetto-oggetto e che si cerca di individuare attraverso lo stesso esercizio dell’IO SONO, senza la consapevolezza della relazione de “l’Io è l’altro”.

Esso è dicibile, rappresentabile, pensabile o ineffabile, indicibile? E’ parola o silenzio? E’ trasparente a sé o opaco? Coscienza assoluta o ignoto che viene alla luce? Oppure entrambe le cose insieme? E ancora: è davvero qualcosa, un oggetto?

Per il momento sospendo anch’io come Daniel Barion ogni domanda per come lui afferma che non occorrono altre precisazioni per comprendere come il “luogo” che ci indica lo stesso Sartre e Rimbaud sia il medesimo. Tuttavia, è nella natura stessa dell’originario di essere ambiguo ed aperto a differenti espressioni. Misticismo e razionalismo sono sfumature che nascono da modi differenti di abitare l’apertura dell’originario.

Io è un/l’altro siamo tutti “abitanti dei nostri più bei luoghi” non più costretti all’imprecisione, attingendo ancora a termini di spazio (luogo) e tempo (passato, presente, futuro) ma a condizione dell’esperienza sensibile oggettiva nel “qui ed ora”.

Per chi a volte mi chiede ma cosi rischi fare terapia gli rispondo che faccio solo “arte di meditazione filosofica ed empatica”,insomma come Artur Rimbaud,  provo a fare poesie fatte persone, per il divenire: pedagogico del mio clown eutopico.

“Ho visto gli arcipelaghi siderei e delle isole
Dai cieli deliranti aperti al vogatore:
– È in queste notti immense che tu dormi e t’esili
Stuolo d’uccelli d’oro, o Vigore futuro?”

(tratto da Battello Ebbro- A. Rimbaud)

Sito-Bibliografia:
Sartre – La Transcendence de l’Ego  ;

Arthur Rimbaud – il contesto storico-letterario di Daniele Baron  

http://filosofiaenuovisentieri.it/  ;

Jacques Lacan – L’IO è menzogna

http://www.platon.it/Moduli/maestri_del_sospetto/..%5C..%5CTesti%5CLacan%5CLacan.htm